Editoriale in forma di dialogo a tre

Aurelio Andrighetto

 

Gli anni ’80 hanno segnato la fine del ruolo svolto dell’intellettuale, sostituito dall'opinionista e dallo showman, ai quali oggi possiamo aggiungere anche il blogger. Finisce così il ruolo del pensiero critico su cultura e società sostituito da una declinazione mediatica del lavoro intellettuale.

 

 

 


Possiamo fare alcuni esempi di declinazione mediatica del lavoro intellettuale. In campo

filosofico il fenomeno dei Nouveaux Philosophes e in campo artistico la Transavanguardia, un prodotto di consumo destinato al mercato statunitense. Come sostiene Nicolas Martino, l’intellettuale è diventato imprenditore di se stesso nel contesto di un neoliberalismo che richiede l'affermazione di sé come autore. Da qui la figura eroica dell'artista che riemerge e si afferma, appunto negli anni '80, con la Transavanguardia e altri movimenti simili.

 

Negli stessi anni, nel contesto delle cosiddette sub-culture, si sviluppa il Do It Yourself (D.I.Y.) una strategia alternativa di produzione culturale nata alla fine degli anni ’70 e collegata al movimento Punk inglese e americano. Questa pratica viene definita anche con il termine bricolage. ll deliberato dilettantismo nella manipolazione dei

materiali che il bricoleur preleva dalle rovine dei codici e dei linguaggi per scomporre e ricomporre codici e identità è un modo critico di operare al di fuori del sistema di divisione del lavoro, del “mestiere” e della specializzazione.

Questa forma postfordista non strutturata e dilettantistica del lavoro corrisponde a una modalità operativa che non muove da idee

precostituite ma le trova nel corso della manipolazione dei materiali, seguendo

un percorso che cambia continuamente forma, senso e direzione. Negli stessi anni in cui evapora la figura dell'intellettuale, dunque, si solidifica la figura del bricoleur. Ma l’esercizio di pensiero critico non si riduce a questo. Il bricolage non è di per sé esercizio di pensiero critico ma una pratica alternativa a una strategia di produzione e consumo del prodotto culturale che favorisce la ricerca e l'invenzione di nuovi codici e linguaggi attraverso la quale ri-articolare le nostre rappresentazioni della realtà ristrutturando la visione che ne abbiamo.

 

Si tratta di generare nuove visioni in grado di trasformare la realtà.

 

Una questione che pesa sulla declinazione mediatica del lavoro intellettuale è riferita anche al fatto che la parola, che è sempre stata considerata l’espressione perfetta del pensiero critico, ha perso questa funzione. L'uso della parola come strumento di riflessione critica affonda le sue radici nell'idea platonica che il pensiero possa esprimersi correttamente solo attraverso la voce, il luogo nel quale risiede il logos e quindi la verità. In questa accezione la filosofia ha individuato nella parola lo strumento perfetto del pensiero critico attraverso l'uso del quale l'intellettuale può giungere alla "verità".

 

Nel frattempo le cose sono cambiate, la parola ora svolge prevalentemente la funzione d'intrattenimento, nel contesto di una comunicazione che ha l'esigenza di produrre evidenza e visibilità. Inoltre, in questo contesto, la parola è sussidiaria se non marginale rispetto al proliferare di scritture non alfabetiche e di altri codici, visivi compresi.

 

La cosiddetta sharing economy, l'economia generata dall'allocazione ottimizzata e condivisa delle risorse (spazio, tempo, beni e servizi) tramite opportune piattaforme digitali che abilitano l'incontro di domanda e offerta, s’innesta in una evoluzione social-capitalistica delle pratiche alternative postfordiste. Si generano così piattaforme che agiscono da abilitatori mettendo in contatto gli utenti offrendo servizi che ruotano attorno allo scambio, per esempio The Big Lunch, un progetto che consente ai cittadini del Regno Unito di pranzare insieme in strade, giardini e spazi pubblici del loro quartiere; il servizio di Bike sharing della città di Milano; Bla Bla Car, la più grande comunità di ridesharing a lunga distanza, con oltre 20 milioni di utenti registrati in 19 paesi diversi, solo per fare alcuni esempi.

 

Il pensiero critico si è così spostato dalla parola, che ha perso la sua funzione critica, a nuove strategie di pensiero messe in atto attraverso l'uso di strumenti, tecniche, codici e linguaggi, anche non verbali che - come già si diceva - interagiscono tra loro e tra loro e la realtà ristrutturando la visione che ne abbiamo, visione che s'innerva nella realtà stessa trasformandola.

In altri termini, per produrre pensiero critico oggi è necessario mettere mano a strumenti, tecnologie, codici, linguaggi e pratiche diverse per generare nuove visioni e quindi nuove realtà nel contesto di una frammentazione delle culture, delle ideologie e della realtà stessa.


Ermanno Cristini

 

Il fenomeno del “curazionismo” che investe soprattutto l’ambito artistico, ma non solo, a partire dagli anni 90 è una forma del decadimento mediatico del lavoro intellettuale. La figura dell'esperto sostituisce quella dell’intellettuale e costituisce una forma specifica, radicata nelle logiche stesse dell’industria culturale, di rinuncia all’esercizio del pensiero in quanto attività critica e di conoscenza.


Il riscatto della funzione intellettuale, necessita di abbracciare una logica di “disobbedienza” che comporta un passo indietro rispetto alla professione. Il “bricoleur” o il “dilettante”, in quanto cortocircuiti antiutilitaristi, sono gli ambiti entro cui può disegnarsi l’orizzonte di una funzione critica riappropriata.

 

La ridefinizione dell’autorialità è conseguente. Se essa si è disegnata, attraverso la spettacolarizzazione mediatica, intorno al protagonismo del “personaggio” (in arte il curatore più che l’artista) l’esercizio della funzione critica pone al centro i temi della negoziazione e del dialogo, che sono poi quelli della frontiera.

 

Data l’impossibilità del ruolo intellettuale oggi, l’esercizio “disobbediente” dell’intellettuale impossibile sta nella frontiera, la cui unica praticabilità è attraverso l’immaginazione.


Chiara Pergola

 

L’intellettuale è impossibile. Ma il suo potenziale di senso ancora campeggia, o è soltanto un “utile” simulacro?

 

 

 

 

 

 

 


Se da un lato emerge la figura dell’intellettuale come “professionista della cultura”, valorizzata economicamente e simbolicamente all’interno di un sistema implicitamente elitario, dall'altro questa emersione è sostenuta di fatto da una vastissima base di produzione intellettuale che non è valorizzata, né economicamente, né simbolicamente. Ma le ricadute di questo processo non si esauriscono esclusivamente nel binomio professionismo/volontariato; e l’esercizio di un pensiero critico, frammentato e disperso nei mille rivoli di queste attività non è esattamente scomparso, ma piuttosto indecifrato.

Indecifrato che andrebbe inteso non tanto come qualcosa di soggiacente e già dato, il codice segreto da scoprire (idea che pure serpeggia e che attiene ad una prospettiva eroico-misterica passivizzante) quanto come insieme di “cifre” da inserire in un nuovo sistema posizionale, che inneschi processi poietici significativi.

 

Tuttavia, attualmente, le potenzialità di questa "dissoluzione dell'intellettuale come critico separato, una dissoluzione voluta anche e fortemente dai movimenti degli anni settanta e non necessariamente negativa" (Nicolas Martino), così come altre ipotesi messe in campo dai movimenti emancipativi, hanno assunto una declinazione che è prevalentemente funzionale ai sistemi di profitto; nonostante l'insieme delle nostre attività espressive non si collochi più sul solo fronte della parola, di fatto non abbiamo ancora trovato un modo di rendere "leggibili" i nuovi segni che così si producono.

 

Esistono infatti delle situazioni concrete e reali che "bloccano" in pratica la possibilità di fare uno scatto in avanti all'incisività di una molteplicità di linguaggi. Ci sono cioè aspetti anche normativi – e non solo di consuetudine - che si oppongono a quella che è stata indicata come una possibile direzione del cambiamento negli anni '60 e '70. Ad esempio, a livello istituzionale e accademico il riconoscimento della “autorialità” avviene su basi canoniche, e si fonda ancora sulla centralità della parola; la cui presa effettiva sul reale è però erosa dal proliferare di altri mezzi espressivi.

 

Dove invece questa molteplicità è ammessa? Proprio nei luoghi in cui viene messa a profitto. Si crea così un corto-circuito in cui da una parte si impedisce il riconoscimento del pensiero critico quando questo si avvale di tutti i mezzi di cui può disporre; dall’altro il pensiero critico viene messo in produzione e trasformato in “business”.

 

Così, mentre estendiamo le nostre facoltà espressive, si generano estensioni che comportano livelli sempre maggiori di delega, e si abbassa il livello di consapevolezza nei confronti del linguaggio effettivamente utilizzato, in gran parte nidificato nelle macchine; estensioni, quindi, in mano a chi le produce.

 

La riappropriazione del livello critico implicherebbe allora una elevata competenza “tecnica”: attenendosi al senso strettamente etimologico la riappropriazione e l’esercizio del pensiero critico sarebbe cioè un’attività artistica. Ma su questo “punto cieco” - l'arte - si accumulano talmente tanti luoghi comuni e falsi miti che per rimuoverli tutti dovremmo rinunciare a procedere; e in fondo, se anche si riuscisse a creare un piccolo varco, non sarebbe altro che uno degli innumerevoli punti di vista che si contendono questo campo di battaglia: in nome di un assoluto che nei fatti è "assolutamente relativo".

 

Sarà meglio quindi semplicemente incamminarsi, anche senza conoscere il nome della strada.