Cosa bevi?

Cosa bevi?”

 

“Un bicchiere d’acqua, grazie”

 

Inizia così una conversazione tra Aurelio Andrighetto e Giuliano Zanchi sul rapporto tra arte sacra, arte contemporanea e crisi del pensiero critico.

 

A - Citavi Régis Debray a proposito dell’arte che si è emancipata dal religioso per diventare essa stessa religione, di una religione e di un culto dell’arte che si sviluppa in rapporto alla nozione di proprietà intellettuale ed artistica. Mi dicevi che ora siamo giunti a un passo ulteriore. Potresti spiegarmi meglio? Inoltre, tutto ciò ha che fare con l’attuale crisi del pensiero critico e con la scomparsa della figura dell’intellettuale?

 

Z - Citavo Régis Debray a proposito dell’ampiezza di sguardo in cui colloca una interpretazione dei processi estetici che si avvicina molto all’impressione che io stesso ho della lunga storia di intrecci fra cultura artistica e vita cristiana, che ritengo troppo ingenuamente ricondotta alla formula dell’ARTE SACRA, intesa nel senso che essa ha assunto nella stagione tridentina di arte a soggetto religioso di matrice dottrinale nel contesto della controriforma. Il riflesso mentale di convenzione nel senso comune cattolico ha eletto questa idea di arte sacra come ipostasi immutabile dell’intera storia della relazione tra cristianesimo e arti. In realtà cultura artistica e vita cristiana si sono incontrati nella storia in modi anche molto diversi ognuno dei quali ha generato un paradigma simbolico specifico e ha assegnato all’immagine una funzione ogni volta specifica. La stagione inaugurata dalla controriforma è quella che si congeda dall’immagine come icona/sacramento per entrare nel paradigma dell’immagine come rappresentazione della storia e del dogma e di una idea dell’arte come disciplina autonoma nella quale l’artista assume l’attitudine a essere in proprio, e in virtù delle abilità tecniche proprie dell’arte, interprete della qualità spirituale dell’esperienza, al pari del poeta, del teologo e del letterato. In questo il pittore/esegeta contende sempre più spazi di autonomia e di contrattazione col committente/teologo. Cultura artistica e committenza ecclesiastica sono grandezze che si misurano oramai sempre più alla pari. Fino alla transizione romantica in cui l’arte diventerà, con un sorpasso epocale, la nuova religione.

Da quel primato religioso dell’arte romantica siamo arrivati al dominio dell’estetica nella coltivazione simulatoria del senso nella nostra epoca contemporanea, nella quale l’immagine viene elevata a diretta sorgente di una esperienza della realtà che non trova più fondamenti in oggettività ontologiche. Il paradigma culturale postmoderno o postsecolare o postqualsiasicosa è intimamente condizionato dall’eclissi del fondamento proclamata a suo tempo da Nietszche. Io semplificherei così  quella profezia autoavverante che ha deciso le sorti della nostra cultura: la verità è brutta perciò non ci resta che distrarci con il piacere e la bellezza. La verità è brutta significa che la sola verità con cui l’essere umano può realisticamente riconciliarsi è che la vita è solo il frutto una combinazione accidentale di fattori materiali dietro la quale non esiste alcuna ragione, alcun senso, alcuna “spiegazione” trascendente. Questa è la vera verità di quell’illuso essere vivente che è l’uomo. Ed è una verità brutta, cruda. All’essere umano non resta che provvedere di un senso il frammento contingente della propria esistenza inventandolo in proprio nella forma della simulazione. Il senso non esiste. È solo il frutto della “favola” con la quale l’essere umano lo produce come transitorio e insussistente sforzo della propria volontà di vivere. L’estetica oggi svolge questo necessaria funzione simulatoria. L’immagine è l’unica realtà possibile in un mondo senza fondamento. La stessa ricerca filosofica sembra ancora sostanzialmente rinunciare alla vecchia ambizione filosofica di una Ragione destinata a scoprire la struttura sensata del reale. La filosofia è diventata interpretazione. Nel senso di divagazione sulle forme del senso prodotte dalla creatività simulatoria della cultura. Dalla letteratura all’arte. Prendi tutto il filone di quella filosofia che riflette prendendo a pretesto le opere dell’arte. Non ambisce a mettere a fuoco la verità. Ma a mettere in circuito il gioco di significati prodotti nella storia. Non esiste quindi nessuna oggettività, nemmeno estetica, verso la quale un pensiero critico possa vantare un primato e una competenza. Non esiste nessuna oggettività e nessun fondamento. Dunque ogni atteggiamento critico viene per definizione aggirato da quello interpretativo. Il critico oggi non è quello che distingue l’autentico dall’inautentico. Ma l’affabulatore che giustifica un’invenzione estetica.     

 

A - Di riflesso penso ai francesi, a un modo di fare della filosofia un’affabulazione intelligente e brillante che vortica su se stessa mentre interpreta l’opera d’arte. Anche Bruno Fornara ha portato l’attenzione sul fatto che il vuoto lasciato dai grandi sistemi di analisi nella critica cinematografica è stato riempito da interpretazioni, da sguardi molto personali, errabondi e divaganti.

Dunque, mi dici che la transizione dell’immagine da icona/sacramento a rappresentazione della storia e del dogma inaugurata dalla Controriforma ha sortito delle conseguenze significative, tra queste il formarsi di una concezione dell’arte come disciplina autonoma. Anche l’idea dell’immagine come motore di emozioni mi pare si sia formata nel corso di questo passaggio. Penso alle cosiddette mozioni interiori che non poco peso hanno avuto nell’educazione di artisti come Gian Lorenzo Bernini, uno tra i più disciplinati nella pratica degli Esercizi Spirituali prescritti da Ignazio di Loyola. La fortuna avuta dall’immagine che scatena emozioni nella nostra cultura potrebbe trovare nella Controriforma una sua radice? Mi pare che questo aspetto emozionale dell’immagine sia ben presente nella transizione romantica in cui, come dici, l’arte diverrà la nuova religione. Anche nelle odierne strategie di comunicazione e seduzione che sfruttano una risposta diretta ed emotiva l’immagine svolge un ruolo importante. Le tecniche di comunicazione visiva ci hanno calati in un mondo di emozioni e desideri, non di pensieri, e questo dovrebbe farci riflettere sul vuoto lasciato dal pensiero critico, che è stato appunto riempito da emozioni pronte all’uso, per così dire di facile consumo. Mi chiedo cioè se la società dei consumi si sia appropriata dei mezzi, delle tecniche e dei metodi controriformistici atti a suscitare mozioni interiori, se cioè i mezzi, le tecniche e i metodi della propaganda religiosa siano migrati nella propaganda commerciale che suscita emozioni di segno diverso, vale a dire per nulla spirituali, ma non per questo meno interiori. L’interiorità ora è quella psicologica già prefigurata nell’Io del Romanticismo in cui l'arte diventerà la nuova religione.

 

Z - Intanto preciso il mio pensiero sulla Controriforma e il senso delle transizioni che essa ha portato con sé. A me sembra sempre più prezioso il vecchio saggio di Paolo Prodi che riflette sulla figura di Gabriele Paleotti come emblema di quell’ambizione, nella sua sostanza non riuscita. Di riportare i criterio dell’arte sacra in prossimità della fedeltà alla storia e della filologia del testo. Del “senso critico” diremmo noi oggi. Questa via di rinnovamento dell’arte fallisce. Roma la rifiuta. Paleotti stesso rinuncia. Alla fine della sua vita invoca addirittura un INDICE per l’arte parallelo a quello dei libri. Così la tradizione cattolica dell’arte passa da una teologia dell’immagine a una didattica del dogma. Illustrazione della dottrina. Le esperienze a cui tu ti riferisci, legate all’orazione mentale e alla composizione di luogo, che vanno da Francesco di Sales a Ignazio di Loyola, si intensificano come forma di sopravvivenza di un legame all’immagine che mantenga la sua forza spirituale, consentendo all’individuo di stare di fronte a essa potendo contare sul principio di una osmosi reale tra mondo sensibile e mondo soprasensibile di cui l’immagine stessa è una specie di ponte. Gli affetti che si attivano sono sintomo di un legame reale che si dà fra due mondi che comunicano. L’emotività del visivo di oggi mi sembra qualcosa di più sostitutivo e artificiale. La sfera estetica oggi non apre porte verso un altro mondo (non vive più di quel presupposto simbolico), si presta come strumento per crearne continuamente di alternativi, in sostituzione dell’altro mondo di cui oggi si ritiene per ovvia l’inesistenza. Il prepotente ruolo che l’epoca assegna oggi all’immagine sta in questo suo ruolo di rassegnata necessaria costruzione di un senso, temporaneo e soggettivo, che può essere dato solo come invenzione simulativa e può essere vissuto solo come intensità emotiva. Non esiste fondamento, perciò distraiamoci con il piacere e la bellezza. Con l’immaginifico che quanto più eccita emozioni tanti più sembra reale. Le prassi concrete di questo ricorso all’immagine e all’estetica possono forse mutuare qualche cosa del passato tridentino. Del resto la cultura dopo la modernità vive di riciclo sistematico delle forme. Ma le forze in gioco sono diverse. Quello che le rende completamente diverse è questo non ritenere più l’immagine un ponte tra due mondi. Ma solo uno schermo posto sopra l’infondatezza di questo.

 

A – le tue osservazioni sul “senso critico” riferite al progetto del cardinale Paleotti, naufragato in quella che definisci “illustrazione della dottrina” sono interessanti. Conosco il progetto di Paleotti limitatamente all’idea di un lexicon verbale, chiamato in causa per riflettere sullo statuto delle immagini nel contesto di una diatriba tra coloro che sostengono la loro esistenza (mentale) e coloro per i quali l’immagine è solo cascame, materiale di risulta di una procedura proposizionale. In altri termini, conosco Paleotti perché citato  come antesignano di quei cognitivisti che, nel loro schierarsi nettamente dalla parte del verbale, sembrano richiamare  le interdizioni post-tridentine sulle immagini. Nulla di più.

Vorrei invece approfondire su un altro punto.

La similitudine dell’immagine come “schermo posto sull’infondatezza” con la quale ribadisci un concetto  già espresso in precedenza, è la giusta conclusione del ragionamento; ma se dovessimo osservare il problema posto dall’inadeguatezza dell’immagine in una prospettiva diversa da quella filosofica, quindi diversa da quella del fondamento?

La mostra dedicata ad Albrecht Dürer in corso a Palazzo Reale, riserva una sezione a una sua innovazione iconografica che ebbe gran successo. Questa innovazione matura nel contesto di un crescente interesse per un classicismo di ascendenza italiana nelle città tedesche del sud, che non soppiantò la contrapposta tendenza anticlassica.  Le trentasei xilografie della Piccola Passione costituiscono un esempio di rinegoziazione nel rapporto tra opera e fruitore in una chiave anticlassica, che inaugura un nuovo approccio iconografico all’immagine sacra: il pathos delle espressioni stimola la curiosità del fruitore delle opere. Si tratta di un approccio iconografico all’immagine sacra e al suo rapporto con i testi sacri assolutamente innovativo per l’epoca e il contesto culturale. Ebbene, mi chiedo, non sarà che a noi e venuta a mancare proprio questa capacità di rinegoziare il rapporto tra l’opera e il suo fruitore? L’arte sacra dei nostri tempi è immobilizzata in stilemi del tutto inattuali oppure alla ricerca di un dialogo forse impossibile con l’arte contemporanea. Nel tuo saggio Le migrazioni del cuore porti appunto l’attenzione sul fatto che il mondo religioso si trova più a suo agio con quello che chiami “generico visivo” piuttosto che con l’arte contemporanea. E se la rinegoziazione dovesse aver luogo proprio su questo piano, quello del “generico visivo”?

 

Z - Quando dico che la cultura cristiana si è dimostrata più a suo agio col generico visivo che con lo specifico artistico, penso per esempio a come la vita parrocchiale ha subito compreso e assunto le potenzialità del cinema, che è stato fin da subito anche un fronte di contesa culturale col mondo di sinistra. In tutte le parrocchie sono nate sale cinematografiche in cui il linguaggio cinematografico è stato subito assunto come qualcosa di importabile nella vita cristiana di base. Ma penso anche al teatro. E dopo anche alle progressive invenzioni di quella comunicazione che adesso chiamiamo “multimediale”, partita coi “filmini” catechistici, i superotto, le diapositive, per arrivare oggi alla multimedialità matura della rete. In questo campo, che è quello del visivo nel senso che riguarda l’espressione estetica entrata progressivamente negli strumenti della vita quotidiana, la cultura cristiana ha trovato qualcosa di più congeniale, forse perché mantiene fermo un ruolo dell’immagine figurale, della narrazione di senso, della illustrazione contenutistica. Tutti ricordano in fondo come il Vangelo secondo Matteo di Pasolini ha finito per diventare quasi subito uno strumento di assimilazione nelle parrocchie della nuova sensibilità conciliare. Non è successa la stessa cosa con quell’ambito dell’espressione estetica che si concretizza nella cultura artistica. Lì si è rimasti in una impasse che ha due elementi di inerzia. Uno sta nella tendenza divenuta ormai fisiologica della cultura credente a trincerarsi dietro la convenzione delle forme ricevute. Ma in fondo è dalla fine del settecento che è così. Una iconografia esausta, teologicamente inattuale e spiritualmente innocua, trascinata nella ripetizione anche per quell’aspettativa affettiva che sempre il rapporto religioso chiede all’immagine, che quindi deve tendere a essere il più possibile uguale a sé stessa. Nel libretto che gentilmente hai voluto citare parlo dell’immagine del sacro cuore come uno degli emblemi di questo connaturale invariabilità dell’immagine sacra intesa come oggetto “sacramentale”, che istituisce un rapporto affettivo. Un secondo elemento riguarda il fatto che le risorse messe a disposizione dell’arte, per come esse si sono evolute nell’ultimo secolo e mezzo, rispondono a bisogni molti diversi, che muovono soprattutto un codice concettuale, molto meno quello affettivo. L’opera d’arte contemporanea fa pensare, non introduce in un legame col raffigurato. Tuttavia l’arte contemporanea ha assunto forme, modi e codici, che sbrigativamente potremmo definire “performativi” che sono molto vicini a quella idea più “misterica” della liturgia che la riforma recente ha provato a tradurre in pratica. Con le polemiche che molti conoscono. La vera parentela fra cultura cristiana e arte contemporanea dovrebbe essere vista su questo piano. Ma proprio su questo piano, anche la vita cristiana, non ha capito fino in fondo la posta in gioco della liturgia come azione performativa. Quindi per ora il rapporto è in stallo. Ma avrebbe una disperata necessità di sbloccarsi. Il cristianesimo non è pronto. L’arte contemporanea lo osserva con la blanda attenzione di una cultura ormai superiore. Quel poco che nasce viene da esperimenti sporadici, solitari, poco più che testimoniali. Eppure sarebbe fecondo per entrambi ritrovare elementi di congiunzione. Anche per l’arte. Che secondo me oggi non pensa all’altezza dei suoi compiti. Credo che sia un po' finito il tempo delle provocazioni, del sarcasmo, della decostruzione. Questa è ormai l’ortodossia una élite del mondo artistico che difatti ha perso contatto col grande pubblico. Oggi l’arte ha le forme, ma non ha le forze, le densità di senso che permettono alle forme di toccare i corpi muovendo gli spiriti.

 

Robert Barry, It is wholly indeterminate. 1970. Testo scritto su parete bianca: ““It is wholly indeterminate, it has non specific traits, it is never seen, it is not accessible”.  L'opera è esposta nella mostra Living with gods allestita in questi giorni al British Museum.