Tendenzialmente in ritardo

ESSE, 85 Autunno 2015. Photo © ESSE Arts+Opinions
ESSE, 85 Autunno 2015. Photo © ESSE Arts+Opinions

di Steve Lyons

trad. Pergola Chiara

 

Il saggio di Steve Lyons, pubblicato per la prima volta su Esse Arts+Opinions nell'autunno 2015, ripercorre le tappe del pensiero critico della sinistra italiana e francese attraverso il mondo dell'arte negli Stati Uniti. Chiara Pergola lo ha tradotto per Walktable, dove viene presentato per la prima volta in Italia. Il testo infatti è cruciale per comprendere come le teorie nate nel contesto dei movimenti di protesta degli anni ’60 e ’70 si sono diffuse a partire dal decennio successivo all’interno del “sistema dell’arte”; caricandosi in questo passaggio di nuovi significati che in buona parte sfuggono alle intenzioni intrinseche dei discorsi in questione. Mettendo l’accento su questo aspetto, e documentando in modo estremamente preciso i momenti salienti del “gioco di sponda” tra Europa e Stati Uniti, il saggio di Lyons pone le premesse per un corretto inquadramento dei problemi da cui muove anche Walktable: in questo senso la traduzione stessa si colloca in un processo di “mise en abyme” in cui ci auguriamo che leggendo ci si possa “rispecchiare”. >>

 


Nell’estate del 2009 il guru di Fox News Glenn Beck è andato in onda sventolando per più di sei minuti un libretto blu e implorando la sua audience di leggerlo. A suo parere si trattava di un libro importante, di un libro pericoloso, di una chiamata alle armi per la sinistra radicale, di un trattato rivoluzionario per il ventunesimo secolo[1]. Il libro era L’insurrezione che verrà, del collettivo anarchico e no-global Il Comitato Invisibile[2], appena tradotto dal francese da un gruppo anonimo di artisti ed intellettuali di New York e pubblicato da Semiotext(e): casa editrice fondata da Sylvère Lotringer, nota soprattutto per avere portato l'attenzione della scena artistica newyorkese nei primi anni ’80 su teorici quali Jean Baudrillard, Gilles Deleuze, Felix Guattari, Franco “Bifo” Berardi e Antonio Negri. L'improbabile esortazione di Beck a leggere L'insurrezione che verrà drammatizza una collisione tra campi ideologici opposti, e ci chiama a riflettere sul modo in cui alcuni dei più radicali pensatori europei sono approdati in America - talvolta fuori contesto, oppure con decenni di ritardo. Il successivo succès de scandale di Semiotext(e) ci impone altresì di tracciare un bilancio sulla mobilità dei confini di questo atipico mercato intellettuale, asserragliato ai margini del mainstream.

 

Il sistema di diffusione del pensiero radicale della sinistra italiana e francese si è certamente trasformato in anni recenti, e con il crescente mercato per le traduzioni in lingua anglosassone della cosiddetta “ideologia post-68”, numerosi teorici emersi dal movimento studentesco del 1968 si sono trovati a viaggiare nel circuito globale delle fiere, delle biennali e delle riviste d’arte. Abbiamo visto Jacques Rancière parlare di arte e politica a Frieze, o Bifo veleggiare attraverso il circuito delle biennali, da Kiev a Kassel a Montréal, mentre lo stesso Semoitext(e) appariva come artista alla Biennale di Whitney e Artforum dedicava interi numeri all’eredità del ’68. In questo saggio, vorrei dipanare alcuni nodi di questo intreccio amoroso tra arte e teoria. Osservando come le teorie radicali promosse da Semiotext(e) si sono propagate attraverso le pagine di Artforum nel decennio scorso, mi interrogo sulle ragioni per cui una rivista patinata, nota soprattutto per i copiosi inserti pubblicitari di alta moda e gallerie quotate, si è lasciata contagiare dal virus di Semiotext(e) e su cosa può dirci questo binomio sulle condizioni presenti del lavoro intellettuale.

 

INFATUAZIONE

Partiamo da una constatazione: nella passata decade, il mondo dell’arte ha mostrato un picco di interesse per la cultura di protesta anti-capitalista degli anni ’60 e ’70 e per gli intellettuali europei che hanno influenzato quelle generazioni; Artforum - assieme a riviste come Texte zur Kunst e, più di recente, May Revue – ha fatto molto per sensibilizzare i propri lettori a questa moda intellettuale. Ma quando è cominciato questo processo? Secondo l’artista britannico Merlin Carpenter, tutto è iniziato nel 2003, quando Tim Griffin, un critico emergente con un background in letteratura comparata, viene nominato caporedattore di Artforum, nel momento in cui la rivista si stava volgendo alla teoria “soft”[3]. Sotto la direzione di Griffin, Artforum si trasforma così in una piattaforma in cui le opere recenti degli intellettuali di sinistra francesi e italiani, potevano essere discussi e divenire oggetto di dibattito sia per il loro interesse intrinseco, sia in relazione al discorso artistico contemporaneo. Tra il 2006 e il 2009, Artforum dedica intere sezioni monografiche al lavoro di Guy Debord, Jacques Rancière, Paolo Virno e Antonio Negri, spesso accoppiando articoli di artisti e critici sulla rilevanza attuale di questi teorici con estratti e citazioni dai loro testi principali o più recenti. Con la pubblicazione in rapida successione di una serie di numeri tematici su rivoluzione, protesta e “comune”, la rivista ha orchestrato un dialogo tra arte contemporanea e pensiero politico radicale, proprio mentre la speculazione nel mercato dell’arte appariva quasi inseparabile dai rischi legati ad un mercato finanziario sempre più instabile. Ma come mai gli scrittori e gli editorialisti di Artforum hanno cominciato a contemplare la sovversione dell’ordine costituito in quella

particolare congiuntura? La promozione di Tim Griffin a capo di Artforum e la conseguente popolarità delle teorie post-68 al suo interno, sono stati forse un sintomo dell’urgenza di riallineare l’agenda politica da parte degli insiders del mondo dell’arte, dopo un decennio di espansione globale e di intensa crescita economica? Oppure più semplicemente gli scritti di Debord, Negri, Rancière e Virno erano utilizzati per confezionare e promuovere al mercato le ultime tendenze artistiche?

 

Si potrebbe sostenere che i teorici promossi da Artforum durante il mandato editoriale di Griffin, condividevano un progetto - o perlomeno delle affinità intellettuali – nell’analizzare i limiti del pensiero critico nel contesto del capitalismo post-industriale. Ma quello che salta agli occhi è soprattutto che – con l’eccezione di Rancière – condividevano un editore. Di fatto gli intellettuali che occupavano la scena di Artforum erano esattamente quelli introdotti in America vent’anni prima da Sylvère Lotringer, che in quanto fondatore di Semiotext(e), lavorava a stretto contatto

con un network di artisti, filmmakers, proprietari di club e attivisti per immettere nei circoli artistici di SoHo le nuove traduzioni della sinistra francese ed italiana. In effetti i numerosi scrittori e traduttori della famiglia allargata di Semiotext(e) – quali John Kelsey, Chris Kraus, Liz Kotz, Eileen Myles, Gerald Raunig, Mark von Schlegell, Jason E. Smith e Lyanne Tillmann, per non parlare dello stesso Lotringer – sotto la direzione editoriale di Griffin, cominciarono a scrivere su Artforum articoli di fondo, recensioni di libri, rassegne d’arte e classifiche. Da qui a parlare di una sorta di colpo di stato ad Artforum operato da Semiotext(e) il passo è breve. Forse a questo punto non sorprenderà scoprire che Griffin era stato studente di Lotringer alla Columbia alla fine degli anni ’80 e che aveva poi lavorato come stagista a Semiotext(e) nei primi anni ’90.

 

DOPPIA INFATUAZIONE

Ma non è stato questo il primo colpo di fulmine di Artforum per Semiotext(e). Due decenni prima, durante un periodo non dissimile di intensa crescita economica, Semiotext(e) aveva già attratto gli sguardi della scena artistica newyorchese con uno dei primi libri pubblicati nella collana Foreign Agents: si trattava di Simulazioni, di Jean Baudrillard, pubblicato nel 1983, con tempismo perfetto. Infatti nei primi anni ’80, artisti, critici, curatori e mercanti d’arte avevano scoperto che il post-strutturalismo francese, con la sua opacità linguistica, poteva essere utilizzato come un efficace strumento di marketing per l’arte contemporanea. Come ricorda lo stesso Lotringer, nel mondo dell’arte, “sempre a caccia di nuove idee”, Simulazioni di Baudrillard divenne subito un must perché “conferiva un’aura di teoria a quella che era essenzialmente un’astuta mossa dell’arte verso l’industria dei media e della pubblicità”[4]. Questa “astuta mossa” andava sotto il nome di Citazionismo e la sua premessa principale – cioè che un artista poteva esercitare una critica alla pubblicità ed alla cultura di massa simulandone le strategie estetiche messe a punto nel contesto commerciale - prendeva Simulazioni a livello letterale. Citazioni distorte di Simulazioni apparvero quasi contemporaneamente su riviste d’arte, su comunicati stampa, nei testi a catalogo; era come se il nome di Baudrillard fosse sufficiente a garantire la rilevanza di un’opera d’arte. Nell’autunno del 1984, Baudrillard figurava nella lista dei collaboratori alla redazione di Artforum, un titolo che ha conservato fino al 1986. Con l’unico problema che il filosofo non aveva mai nemmeno sentito parlare di Artforum.[5]

 

L’affaire Baudrillard aveva i tratti tipici di una fantasia adolescenziale: unilaterale e chiaramente insostenibile. Quando nel 1987 Baudrillard fu invitato a tenere una lezione in una sala gremita al Whitney Museum of American Art, fu costretto a fronteggiare i suoi discepoli di persona. Quando gli domandarono che cosa pensasse degli artisti e dei critici dei quali aveva ispirato il lavoro, rispose: “Non ci può essere alcuna scuola Simulazionista (…) perché il simulacro non può essere rappresentato. Si tratta di un totale fraintendimento di ciò che ho scritto”.[6] In concomitanza con il viaggio del filosofo a New York, Group Material – il collettivo newyorchese famoso per mettere in scena eventi espositivi a forte connotazione

politica – inaugura una mostra dal titolo Anti-Baudrillard (Resistance) al White Columns, uno spazio alternativo nel West Village. Con minor irritazione verso il testo in sé che verso le modalità con cui Baudrillard era stato messo a frutto nel sistema dell’arte, Group Material sfidava l’interpretazione di Simulazioni dominante in quel contesto, che sembrava deliberatamente tesa a “neutralizzare l’idea di cultura come luogo di contestazione e resistenza”.[7] Nella brochure che accompagnava la mostra, il gruppo precisava così il proprio punto di vista: “Noi siamo circondati da una giungla teorica. L’inattività ne ha fatto una foresta insidiosa che cela pericoli reali – la dissoluzione della storia, la deformazione di ogni realtà alternativa, il disconoscimento delle pratiche. L’attivismo è percepito come illusorio all’interno di una cultura illusoria. In questo confino auto-imposto l’arte diventa un confortevole rifugio, la critica diventa stile, la politica diventa idealismo ed in ultima analisi l’informazione diventa un’impossibilità.”[8]

 

Group Material provocava la propria audience con immagini di razzismo, guerra, genocidio, e organizzava una protesta politica, spostando all’interno del sistema dell’arte un dibattito che si era svolto per lungo tempo nei circoli attivisti, sulla possibilità di una resistenza politica diretta nel contesto del capitalismo post-industriale. Negli Stati Uniti la sinistra organizzata era notoriamente sospettosa verso le forme di resistenza indiretta promossa da Semiotext(e) – il tipo di interventismo ingegnoso concepito in origine dai marxisti del Movimento Automatista, o dell’Internazionale Situazionista, che insistevano sul fatto che la contestazione poteva stabilirsi solo dall’interno delle condizioni di oppressione esistenti e contro di esse. In risonanza con il più ampio dibattito sull’importanza dell’azione diretta, Anti-Baudrillard delineava i confini di un campo minato, nel quale le nozioni di politico e di resistenza erano continuamente rimodellate e, facendo questo, evidenziava la presenza di due abissi a New York, che separavano intellettuali, arte e attivisti: il primo divideva la sinistra organizzata dal milieu intellettuale rappresentato da Semiotext(e); il secondo divideva Semiotext(e) dai crescenti interessi di mercato della scena artistica newyorchese.

 

SCHIZOFRENIA ORGANIZZATA

L’esposizione Anti-Baudrillard di Group Material produsse un tempestivo dibattito sulla cieca infatuazione del sistema dell’arte di New York per la teoria critica francese, domandando in che misura Simulazioni di Baudrillard avesse influenzato quella che appariva come una ritirata generale dalla

politica, nel momento in cui la diffusione dell’epidemia di AIDS raggiungeva il massimo picco. Vent’anni dopo Tim Griffin trasportava la struttura di base di questo dibattito dai confini più estremi della scena artistica newyorchese verso il suo centro simbolico, dedicando le pagine della sua rivista più prestigiosa al confronto tra artisti, teorici e critici sul ruolo dell’arte contemporanea nel progetto di emancipazione sociale. Quando nel novembre del 2009 Griffin utilizzò il suo editoriale per portare in primo piano la frustrazione del geografo e antropologo David Harvey nei confronti di Michael Hardt e Antonio Negri, che facevano appello a concetti astratti a scapito di osservazioni materiali e concrete – “Ne abbiamo abbastanza di relazionalità e immaterialità! A quando le proposte concrete, l’organizzazione dell’attuale politica e le azioni reali?”[9] – egli mise in scena un conflitto ideologico non troppo diverso da quello di Anti-Baudrillard, aggiornandolo per celebrare “l’Anno di Negri” del sistema dell’arte. E tuttavia, se si può riconoscere nella freccia lanciata da Harvey nel 2009 l’eco dell’appello all’azione formulato da Group Material nel 1987, si deve altresì registrare una mutazione di contesto; la messa in scena del conflitto minore tra Harvey e Negri si svolge sullo sfondo patinato del mercato e dell’alta moda; uno sfondo che viene continuamente messo in rilievo durante gli otto anni del mandato editoriale di Griffin.

 

Nel suo editoriale Griffin spesso affrontava esplicitamente il modo in cui il pensiero radicale era presentato all’interno della rivista. “Dove altro il lettore può trovare, per esempio, Jacques Rancière accanto ad una pubblicità di Yves Saint Laurent?” egli si domandava nel marzo 2008, rendendo pubblica una protesta che definiva la linea di Artforum “la singolare schizofrenia del marxismo capitalista”.[10] Griffin identificava costantemente, ma senza mai risolverlo, il conflitto che poteva sorgere nel momento in cui il discorso di sinistra veniva pubblicato in un forum palesemente sostenuto, come ci ricorda l’artista Andrea Fraser, da quello stesso club di multimiliardari che sopra a tutti si batte contro la redistribuzione del reddito negli Stati Uniti.[11] Nelle pagine di Artforum, sotto la guida di Griffin, la teoria era posta sullo stesso piano dell’arte, della moda e del mercato; non appariva come una profezia, ma solo come uno dei tanti opachi indizi dello strano mondo in cui viviamo.

 

Se nel suo primo incontro con la sinistra francese e italiana, il mondo dell’arte di New York si agganciava ai neologismi linguistici della teoria per vendere la propria merce, durante il secondo incontro, vent’anni dopo, le parole chiave non erano certo più sufficienti. Quasi come se il mondo dell’arte, nell’approccio a Baudrillard, avesse appreso e scoperto che dell’intellettuale non bastavano le parole: occorreva l’interezza del suo corpo consenziente; ed ecco che intellettuali come Bifo, Negri e Rancière vengono sistematicamente lanciati in contesti estranei, attorniati da arte, moda e celebrità, dove gli si richiede di prendere parola in nome dell’arte e degli artisti. La cosa interessante è che molto di rado – almeno così sembra – un intellettuale oggi rifiuta il proprio pubblico in modo plateale come fece Baudrillard al Whitney nel 1987. Ma questo cosa può significare? A livello pragmatico, dobbiamo accettare il fatto che le biennali, le fiere d’arte e le riviste del settore aprono alla teoria nuovi mondi e un nuovo pubblico che la può usare o abusare in qualsiasi modo, e questo è un bene, può addirittura essere di aiuto nella costruzione di un discorso pubblico più ampio sul capitalismo contemporaneo – soprattutto considerando la metamorfosi irreversibile delle nostre università in fabbriche della conoscenza. Ma ad un altro livello, se guardiamo alla collisione tra teoria radicale e arte contemporanea come ad un sintomo della nostra realtà sociale, può allora rivelare una crisi più ampia che affligge il mondo delle idee così come quello dell’arte: l’insediamento del mercato su tutti gli aspetti delle nostre vite e del nostro lavoro. La colonizzazione della vita quotidiana era stata prevista da molti dei pensatori tradotti da Semiotext(e) nei suoi primi tempi. Ma ciò che era stato inizialmente letto quasi come fantascienza – come Lotringer ci ricorda ripetutamente – si è dimostrato essere molto reale, e l’appello a

scrivere dall’interno e contro ora si applica tanto agli intellettuali che ai loro interlocutori, nel contesto delle nostre condizioni di dipendenza. Di fronte alla metamorfosi della nostra economia dei saperi, è forse giunta l’ora di riflettere sulle teorie radicali non solo secondo i loro termini intrinseci, ma anche alla luce dell’insaziabile domanda di novità e del continuo restyling del pensiero che ci ha portato fin qui.

______________________________________

NOTE

NdT. Il titolo originale dell’articolo di Steve Lyons è Fashionably Late, che pone alcune difficoltà nella traduzione letterale italiana. Ho scelto quindi di utilizzare l’avverbio che deriva da tendenza, nella doppia accezione di sinonimo di moda (fashion – fashionably / tendenza - tendenzialmente) e di propensione.

---

[1] Vd. Glenn Beck, The One Thing: The Coming Insurrection, Fox News video, 6:55, luglio 2009; accesso: 11 ottobre 2017 https://youtu.be/V3Uy5IFxzN8.

[2] The Invisible Committee, L’insurrection Qui Vient, pubblicato nel 2007 dalla casa editrice francese La Fabrique e tradotto in inglese per Semiotext(e) nel 2008 con il titolo The Coming Insurrection. https://en.wikipedia.org/wiki/The_Coming_Insurrection (NdT).

[3] Merlin Carpenter, The Tail that Wagged the Dog, in Canvases and Careers Today: Criticism and its Market, a cura di Daniel Birnbaum e Isabelle Graw (Berlino: Sternberg Press, 2008), pagg. 79-80.

[4] Sylvère Lotringer, Better Than Life, Artforum (Aprile 2003): pag. 252.

[5] Ibid.

[6] Ibid., pag. 253. Cit. da Jean Baudrillard.

[7] Group Material, Resistance (Anti-Baudrillard), dichiarazione degli artisti, 6-28 febbraio 1987, in White Columns Digital Archive, https://www.whitecolumns.org/archive/index.php/Detail/Object/Show/object_id/93.

[8] Ibid.

[9] David Harvey, cit. in Tim Griffin, Action and Abstraction, Artforum (novembre 2009): pag. 47.

[10] Tim Griffin, Social Realities, Artforum (marzo 2008): pag. 73.

[11] Andrea Fraser, L’1% C’est Moi, Texte zur Kunst 83 (settembre 2011): pag. 122.


STEVE LYONS è artista e ricercatore, vive a Montréal, dove ha conseguito un PhD in Storia dell'Arte alla Concordia University. E' anche uno dei fondatori di Not an Alternative, un'organizzazione no-profit e collettivo di artisti con base a Brooklyn.

 

Esse Arts+Opinions è una rivista trimestrale bilingue (inglese e francese) che si occupa di pratiche artistiche interdisciplinari e di tutte le forme d’intervento a carattere sociale, in situ o performative. Privilegia le ricerche che guardano all’arte in relazione al contesto economico, politico, geografico e sociale in cui si inscrive. Fondata nel 1984 da un gruppo di studenti dell’Università di Québec a Montréal, è un’organizzazione no-profit riconosciuta dal 1987. In Italia è distribuita presso il punto vendita di Mondadori in piazza Duomo a Milano, a Torino presso la Libreria Bodoni / Spazio B. Per informazioni e abbonamenti: http://esse.ca/fr/distribution